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L'impresa non è agevole. Forse anche rischiosa, ma Carlo, l'autore in dialetto, e Paolo, il traduttore in italiano, sono personaggi capaci di rischiare. Possono apparire modesti nell'approccio ma in realtà sanno dove vogliono arrivare e ci riescono. Perciò se hanno messo insieme le poesie dialettali del padre e la traduzione italiana del figlio, vuol dire che l'operazione è stata valutata con attenzione, soppesata. Non è un modo per uscire da dei vincoli, tutt'altro. Col dialetto pesarese Carlo Pagnini convive felicemente da quando è nato, ne ha fatto una cultura, la sua cultura. Con il dialetto ha espresso «la continuità felice del genio, non solo popolare, della gente pesarese», come scrive Tullio Giacomini. Ma anche l'arguzia dei popolani. Eppure il Pagnini poeta, felicemente reinterpretato dal figlio Paolo, non è l'attor comico che spopola nelle commedie dialettali. Non vuole far ridere, non ne ha nessuna intenzione. È piuttosto melanconico come sanno esserlo gli interpreti dei sentimenti popolari. È un poeta del dolore, della perdita. Capace, però, di evitare i toni della tragedia esasperata.